Catasterismo, per Genovese. Alpha + Beta
di Giuseppe Frazzetto
Alpha
Le “stelle doppie” di Rosario Genovese sono dipinti-oggetti-installazioni in cui l’aspetto di corpi celesti viene ripreso mimeticamente, destrutturato, fatto divenire matrice di una germinazione di segni allusivi, in una singolare fantasticheria ibrida di scientismo e sogno ad occhi aperti.
Vengono da molto lontano, queste “stelle doppie”. Non si tratta qui solo del tema implicito, ovvero la distanza stellare fra l’individuo e il macrocosmo; è in questione un lungo percorso personale e culturale. Va subito detto che la duplicità speculare e però differente ricorre nell’attività di Genovese. Tema zodiacale, se si vuole, da segno binato. Non a caso l’immediato precedente delle “stelle doppie” sono altre stelle pittoriche, le “stelle parlanti” nel cui ambito del resto permane questo nuovo ciclo. Le “stelle parlanti” sono dipinti raddoppiati, disgiunti e completati da uno scritto. ‘Imprese’, in un certo senso. (‘Impresa’ è parola che “si afferma nel sec. XVI per indicare la rappresentazione simbolica – realizzata mediante una parte figurata ed un motto – di un ideale, di un intendimento, di un programma”, ci ricorda il Dizionario della critica d’arte di Grassi e Pepe).
Queste “stelle parlanti” raccordano una ‘parte figurata’ e un ‘motto’. Ma entrambi gli elementi di queste imprese odierne sono estremamente caratterizzati. Il ‘motto’ si organizza in forme che per estensione e struttura richiamano quanto usualmente chiamiamo poesia lirica. Del resto, scansione delle frasi e pause ricorrenti richiamano l’alternanza di sguardi fra il visibile e il quadro che la pittura riferita al visibile ha come suo presupposto.
Tuttavia, quale visibile? Un visibile che può essere davvero visto? Per rispondere alla domanda bisognerà accennare al lungo percorso che ha condotto Genovese al suo catasterismo immaginario. All’inizio della sua carriera raffigurava muri della sua città, ripresi nella loro iperrealistica caoticità di intonaci sconfitti, fili elettrici, targhe. Già quella remota pittura implicava una sorta di cartografia: il visibile vi era presente soprattutto in quanto luogo in cui si è, e la pittura contrassegnava le mappe del muoversi in un luogo. Elaborando a suo modo un impulso caratteristico della fine del ‘900, ovvero la necessità di contrassegnare esistenzialmente il visibile e/o di marcare come vissuto la pratica artistica (si pensi alla vicenda della Narrative Art, o all’insistenza appunto sul vissuto, sul ‘sono-stato-lì’ propria di molta videoarte), Genovese ristrutturava un’esperienza che era insieme dello sguardo e della vita. La tensione già allora era verso il duplice in-differente, l’esterno come doppio dell’interno e viceversa. In seguito Genovese attraversò la fase della “Narciso Arte”, là dove erano esplicitamente tematizzati e indagati il doppio, il riflesso speculare, l’enantiomorfismo.
Qui tuttavia si tratta del Singolo e dell’Universo, non più di una vecchia città. È però ancora un ‘luogo’ dove si abita. Le mappe stellari che Genovese traccia mediante varie tecniche pittoriche nonché attraverso invenzioni di assemblaggio e di costruzione tridimensionale sono mappe di qualcosa che è insieme visibile e invisibile. Gli astri. Non a caso spesso sono stati immaginati come ‘segni’, cioè letteralmente come rinvii ad un che di non presente e dunque non visibile – non è questo il luogo per analizzare esempi specifici di questo uso traslato del materiale astronomico o astrologico (e qui l’utilizzo metaforico trae agio dell’oscillazione fra le due peculiarità, ovviamente diverse e perfino opposte): strumentalizzazioni giocose oppure grottescamente seriose, “illuminazioni profane”, necessità interiore e imperativo categorico, amicizie stellari e cuore che si spaura.
Le imprese di Genovese hanno dunque come ‘parte figurata’ una rappresentazione degli astri. E come ‘motto’? Stranamente, spesso le sue frasi appaiono ‘al vocativo’. Genovese enuncia ed evoca con tono quasi ieratico un’esperienza della mente che perde le parole: parla con le stelle? È al contrario, secondo il titolo che circoscrive la sua operazione di scrittura e di pittura: sono le stelle, ad essere ‘parlanti’. Le stelle, mute eppure chiassose nella loro ‘eternità’ che sbigottì il cavaliere scita e Bruno e Blanqui e sbigottisce pur sempre il ragazzo qualunque sorpreso da una notte di costruzione dell’anima; le stelle, parlanti il linguaggio d’una visione del visibile che in effetti non è propriamente visibile, e che però apre percorsi alla modesta fantasia degli individui e al poderoso immaginale delle genti; le stelle, che tante tradizioni identificano con gli angeli, messaggeri del non visibile.
Quelle frasi potrebbero apparire delineazioni mistiche di un luogo transvisibile, mappe dell’incontro con qualcosa che ci sta dentro o accanto e da cui però usualmente distogliamo lo sguardo: imprese, sì, ‘imprese sciamaniche’, visioni dell’unico e transeunte, del doppio e complementare e dell’opposto e del qui e del non ancora.
Beta
Rosario Genovese attua variazioni su una sorta di “Principio artistico-cosmologico”. L’universo sembra essere omogeneo, e il pittore, in quanto ne è parte, gli è omogeneo. We are stardust, si sa; e ciò che sta in alto e come ciò che sta in basso, eccetera.
Le stelle erano l’emblema delle perfezione, il modello inarrivabile per la nostra sfera, ambito del “perlopiù”. La prima peculiarità visibile nella sua produzione è la saldatura fra due forme di ‘stupore’: quello per l’ipotetica perfezione dell’estremamente lontano, il corpo celeste; quello per l’inarrestabile riemergere del dettaglio formato e/o quasi informe, della sensazione minima ed effimera, dell’impercettibile imperfetto.
La modernità non ha perso del tutto il senso dello stupore cosmico. A suo modo, ne è strana testimonianza “uno di quei rari libri che mutano una volta per tutte il nostro sguardo su qualcosa”, Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend. Vi si discute un’ipotesi frastornante o assurda: il mito sarebbe il distillato di una scienza antichissima, votata alla contemplazione degli astri; il disastro essenziale in questione nel mito riguarderebbe lo spostarsi dell’eclittica, l’andare del mondo fuori dai suoi ‘cardini’.
Non è scienza, si dirà. Al più, un “sogno scientifico”, o una “scienza poetica”. Tuttavia, quel libro in effetti cambia un po’ un nostro modo di vedere il mito, aggiungendo un’ulteriore interpretazione alle già disponibili, ma soprattutto suggerendo che il mito possa o debba concernere non le troppo umane cose degli uomini, ma qualcosa di più sottile e astratto, perfino di ‘inumano’. E si insinua il dubbio che lo stesso possa dirsi per la letteratura, che talvolta si indica come la forma attenuata, ‘profanizzata’ e infine ‘moderna’ del mito.
Da qualche anno Genovese dipinge “stelle parlanti”: dipinti-oggetti-installazioni in cui un’apparenza di corpi celesti viene ripresa mimeticamente, destrutturata, fatta divenire matrice d’una germinazione di segni allusivi, in una singolare fantasticheria ibrida di scientismo e sogno ad occhi aperti. ‘Pittoscultura’, in quanto il supporto dell’immagine si rifiuta d’essere una superficie piana, strutturandosi in semisfera – forma ostica per un pittore che, come un cartografo, dovrà tener conto delle deformazioni prodotte dal rapporto fra superficie piana e curva, in una reinvenzione non euclidea delle coordinate stesse del tracciare segni e colori, in approssimazioni ed equivalenze.
Ne ho discusso già in altre occasioni, notando come questi manufatti non siano solo una sorta di sogno astrale ad occhi aperti, ma tentino la via inusuale di qualcosa definibile come “impresa sciamanica”. Dall’impresa riprendono il rapporto fra un’immagine e un testo (sono accompagnati da componimenti poetici sequenziati in frasi ieratiche, solenni); dall’approccio sciamanico recuperano lo spingersi verso un’impossibile visione a distanza, o sguardo sull’invisibile.
In una sua nota, Genovese precisa di osservare (dal 2010) “i singoli corpi celesti esplorandoli uno a uno” e riproponendoli poi “in opere che mantengono il rapporto metrico in scala nonché la colorazione originaria”. C’è un’intenzionale ‘referenzialità’, di conseguenza, sebbene spinta all’estremo – una stella in effetti non può essere ‘vista’. Ma aggiunge: “esaminando le origini etimologiche del nome della stella [si] compie un viaggio pittorico nel fantastico, tra cosmologia e mitologia”. E qui quella paradossale referenzialità diventa decostruzione dello sguardo, brulichio inconscio di “piccole percezioni”, di monadi inconsce e della bi-logica per profondo. Tuttavia, ancora: più di recente la meditazione sulle “binarie a contatto […] conduce a riappropriarsi dell’opera doppia, affiancando alla prima tela dipinta a guazzo una sua copia fotografica su tela. Accostando poi i due supporti si interviene in alternanza su entrambi, con disegni a matita e pittura a velo, per dare vita a una sola opera”.
Referenzialità e decostruzione non sono un modo di scordare il medium, o di negarlo. (Non va dimenticato che Genovese ha perfino scritto un libro dedicato alla psicologia della progettualità artistica). Referenzialità, decostruzione, duplicazione e modifica sono il medium usato.
È singolare la concordanza fra l’impeto di “scienza poetica” del libro unheimich di De Santillana e la pittoscultura scientista e sciamanica di cui parliamo. Quell’impeto manda all’aria alcuni presupposti, in questo caso artistici e non scientifici. Bisogna ricordare che un dipinto è prima di ogni altra cosa una superficie ricoperta di colori, secondo un talismano della pittura contemporanea; e d’altra parte il medium è il medium, e se è vero che il messaggio è il medium, il medium deve farsi autoreferenziale e autosignificante. Genovese sembra fare un passo di lato, rispetto ai percorsi ben noti disegnati da queste indicazioni (o da questi dogmi).
La referenza c’è e non c’è; il medium ne è la consistenza ma anche la differenza. La pittura si struttura allora su un impianto ‘elettromorfo’, se non quantistico; la pittura si riferisce a due entità che si unificano – il medium è mezzo, metaxy, ancora.
Le “due entità” non sono, come si potrebbe pensare, le due forme che stanno per le stelle binarie, in sistema. Qui Genovese duplica un sapere dell’enantiomorfismo lungamente considerato, ancora più che praticato, ai tempi della Narciso Arte. Una fase, sia detto per inciso, che non sembra affatto rinnegata, come qualcuno ha voluto suggerire, ma che si mantiene e si modifica in evidente Aufhebung. Le “due entità” non sono quelle, o almeno non sono soltanto quelle. Ma qui è in questione la duplicità speculare e del tutto diversa fra due complessità, il Singolo e Tutto-il-resto. Come nel libro di De Santillana, quanto accade di importante è lì, lontanissimo (non sull’eclittica, ma dalle parti delle stelle, singole o binarie o multiple), e però proprio il suo essere così avulso dal qui ed ora rende possibile per il pittore il tentativo di vedere/vedersi. Quanto accade di importante è il medium e non è il medium, essendo la tensione fra i due estremi fra cui il medium stesso si fa mezzo (ovvero equilibrio), e che vi si specchiano a vicenda.
I due estremi sono complessità: qui l’Io/Inconscio, lì Tutto-il-resto. La teoria del caos ne sospetta l’incommensurabile scansione, la diversità non calcolabile fra le cause e gli effetti e i feedback fra effetti-cause-effetti. La duplicazione sembra un inizio di ordine, un tenere a bada lo scontro fra le due complessità: una forma duplicata non è più una forma qualunque, apparsa come per caso dal caos e/o dalle teorizzazioni, è una forma almeno in parte tenuta, trattenuta, che si mantiene nella duplicazione e che mantiene e soggettivizza chi la duplica.
Ma quella che ci viene proposta non è l’ennesima ipotesi di un’arte come rispecchiamento. Genovese fa le sue immagini. Come si potrebbe ‘vedere’ (e a maggior ragione ‘rispecchiare’) qualcosa di così lontano da essere, sì, luminoso, ma in sostanza invisibile? O visibile solo mediante altri media? Lenti, specole, marchingegni digitali, vetri oscurati, e tutto l’armamentario del visibile verso l’invisibile cosmico. La pittura non replica o rispecchia la visione del telescopio, ma la prende come base per un rimbalzo.
I media rimbalzano sulla nostra percezione, ovvero noi li usiamo e allo stesso tempo essi in un certo senso ci usano. Quel rimbalzo è il punto, per Genovese. La matrice mitopoietica di immagini che duplicano e si duplicano; il punto su cui poggiare la leva, per scardinare un incomprensibile, un non più compreso, un ipotetico iperrealismo della mitopoiesi, lì nel lontanissimo cioè in un qui.