Conversazione di Marco Meneguzzo con Rosario Genovese
2011
MARCO MENEGUZZO: Guardando ai tuoi lavori da un punto di vista storico, si potrebbe dire che anche tu hai vissuto gli anni Settanta attraverso la fotografia, e gli Ottanta attraverso la pittura. E’ un percorso per certi versi tipico di quel periodo, ma ovviamente per ogni artista è diverso: tu, per esempio, hai operato una specie di abbandono “soffice”, morbido della fotografia, utilizzandola come memoria e come aggancio alla realtà ancora molti anni dopo aver scelto la pittura come strumento “finale” del lavoro…
ROSARIO GENOVESE: Alla fine degli anni settanta ho fotografato angoli di strade della mia città con l’idea di farne il soggetto di dipinti. Non avevo uno scopo preciso, possedevo una vecchia fotocamera biottica 6×6 a pozzetto comprata da un anziano fotografo al quale ritoccavo le lastre in bianco e nero per banco ottico usate a quel tempo per foto tessera e ritratti. La mia attenzione era rivolta agli angoli dei crocevia e per rendere riconoscibile il punto in cui mi trovavo inquadravo dal basso la targa con il nome della via, insieme a fili, contatori e tutto ciò che riuscivo a far entrare nello scatto. Sul muro il nome della via appariva stampigliato o scritto a mano con un pennello. A volte, per recuperare il parallasse e correggere le linee verticali, salivo sul tetto delle macchine parcheggiate Questo lavoro mi ha permesso di avere una buona documentazione dei crocevia di Catania, ripresi da angolazioni diverse. Prima di poter vedere il risultato degli scatti bisognava però aspettare i tempi necessari per lo sviluppo e la stampa. Erano attese lunghe, a volte occorrevano anche settimane ma, nonostante tutto, l’attesa aveva qualcosa di piacevole le foto mi permettevano di cogliere la bellezza silenziosa di una città in qualche modo metafisica, senza tempo, caratteristica che accentuavo attraverso la simmetria e l’equilibrio della composizione. Volevo mostrare una spazialità infinita. All’inizio ero attratto semplicemente dal desiderio di sfidare la fotografia imitandola con la pittura, attraverso una tecnica capace di sfidare la riproduzione fotografica. Successivamente iniziai a trasporre sulla tela più foto dello stesso soggetto, ripreso da angolazioni diverse. Riportando i diversi scatti in un’unica inquadratura, ottenevo un’immagine all’interno della quale era possibile cogliere più aspetti dello stesso soggetto. In qualche modo tutto questo ha concettualmente a che fare con il cubismo, ma su piano visivo il mio intento era realista.
MARCO MENEGUZZO: Era il realismo ispirato dalla pratica fotografica o da qualcos’altro? Concentrandoti su alcuni particolari della città – in particolare gli angoli, i crocevia, ma anche le indicazioni stradali delle vie – da un lato ti trovavi ad essere addirittura iperrealista, perché nei tuoi dipinti tratti da foto (quelli sino al 1983, per intenderci) la pittura davvero gareggia con la fotografia, ma dall’altro lato, se qualcuno avesse guardato in sequenza i tuoi quadri si sarebbe trovato di fronte a una vera e propria mappa della città, scandita da immagini realistiche, ma dove il soggetto era la convenzione segnico-simbolica – cioè i cartelli coi nomi delle vie – che definisce un luogo invece che un altro. E le mappe sono la quintessenza del segno convenzionale…
ROSARIO GENOVESE: Come sai l’arte nasce sempre dall’arte. Il mio interesse era allora rivolto principalmente a Mondrian. Il modo in cui nei suoi dipinti ha tagliato e diviso lo spazio della tela è geniale. Innegabilmente egli è uno dei più importanti pittori astratto-geometrici del Novecento, ma è stato anche più volte sottolineato che a guardare da un aereo certi paesaggi nordici sembra di vedere un suo dipinto. Non pensi che Mondrian potrebbe anche essere considerato un “paesaggista sintetico”?
MARCO MENEGUZZO: Certo che lo è o, meglio, lo è stato all’inizio e alla fine della sua attività, nei periodo dei vari “alberi” e “molo e mare” e in quello dei suoi due ultimi quadri sul “boogie woogie” a New York. In mezzo però quel problema non si poneva più, se non come reminiscenza personale: la forma era diventata un linguaggio matematico e mistico, più ancora che un problema di astrazione…
ROSARIO GENOVESE: Io comunque guardavo dentro l’obiettivo con l’attitudine del pittore astratto-geometrico. L’intento era tagliare lo spazio con linee verticali e orizzontali. Non va dimenticato che per i suoi dipinti Mondrian fu ispirato dalla vista dall’alto dei canali di irrigazione olandesi. In altre parole, per le inquadrature mi affidavo a una griglia virtuale che schematicamente faceva una sintesi geometrica dello spazio. Ma ero anche attratto dalla capacità documentativa della fotografia, dalla sua capacità di dare immagine alla memoria.
MARCO MENEGUZZO: Ritrovare la memoria quando si desidera…aprire un cassetto e materialmente ritrovare l’immagine che, non fissata da qualcos’altro – la macchina fotografica –si sarebbe al massimo depositata nell’inconscio, o sarebbe stata definitivamente consegnata all’oblio…
ROSARIO GENOVESE: A onor del vero non pensavo di fotografare qualcosa che fosse destinato a scomparire. Non so dirti se questo avveniva a livello inconscio.
MARCO MENEGUZZO: Ma qual era il tuo rapporto con la fotografia, allora?
ROSARIO GENOVESE: Il fatto che scattassi fotografie, che avessi interesse per la fotografia, non faceva di me un fotografo. Sono nato pittore e morirò pittore. È stato assolutamente naturale per me trasporre con colori acrilici su tela una selezione delle foto che avevo scattato. Utilizzavo una tecnica che era una via di mezzo tra il fotorealismo e l’iperrealismo: il dipinto si proponeva come una copia pittorica della foto meccanica, ma ci mettevo anche del mio.
MARCO MENEGUZZO: Questa tua distinzione tra iperrealismo e fotorealismo prova da sola quanto tu sia stato attento agli aspetti statutari sia della fotografia che della pittura: oggi quella distinzione, su cui si sono scritti fiumi d’inchiostro nella seconda metà degli anni Settanta, si trova solo tra chi ha davvero frequentato quel territorio linguistico che cercava una mediazione possibile tra le due discipline. I tuoi dipinti , almeno sino alla metà degli anni Ottanta, sono figli di questo dibattito.
ROSARIO GENOVESE: L’iperrealismo è oggettivo, il fotorealismo è tendenzialmente soggettivo. Cercavo una mediazione tra questi due diversi modi di intendere la pittura. La prima fase del processo che dava l’avvio a questi miei dipinti consisteva nello scegliere le fotografie e accostarle in maniera originale. Lavoravo su un’idea di composizione capace di dare nuova identità alle immagini delle strade di Catania. Considero ancora oggi quelle tele una mappatura personale della città.
MARCO MENEGUZZO: Il fatto che sia una mappatura personale deriva dal fatto che gli elementi rappresentati sulle tele sono provenienti da diversi scatti fotografici, fatti da punti di vista prospettici diversi e utilizzati in una nuova composizione che non appartiene alla realtà visibile, all’effettiva esistenza di quell’immagine nella città: dunque, partendo da una realtà documentata, e utilizzando immagini di una realtà facilmente verificabile da chiunque, arrivavi a una definizione di territorio che era solo tua, semplicemente mettendo in atto una “composizione” delle immagini reali. Ma questo non è esattamente il procedimento per cui gli antichi disegnatori o incisori costruivano i loro “paesaggi di fantasia” o “capricci architettonici”?
ROSARIO GENOVESE: Come ti ho detto non mi limitavo a trasferire fedelmente l’immagine fotografica su tela. Mettevo insieme elementi provenienti da foto diverse attraverso un taglia-incolla non dissimile da quello che si fa da anni con Photoshop. Solo che allora Photoshop non esisteva neppure concettualmente. I surrealisti avevano fatto qualcosa del genere per trascendere la realtà del quotidiano e il mio intento era diametralmente opposto. Il Cubismo ha mostrato lo stesso soggetto ripreso da più angolazioni e in momenti diversi. E non era il mio intento neppure questo, anche se devo dire che l’esperienza cubista ha avuto un peso sulla mia formazione quando ero studente. Ma come hai intuito, il disegno ha svolto un ruolo importante in questi lavori. Prima di essere dipinta, l’immagine veniva infatti disegnata e, come sai, il disegno è un processo lento che consente vari ripensamenti. È stato attraverso il disegno prima ancora che attraverso la pittura che ho cercato di dare corpo a una visione altra della realtà.
MARCO MENEGUZZO: Sull’alterità della visione della realtà, su cosa si intenda con questo, potremmo ricevere centinaia di risposte tutte diverse. Per quanto riguarda il tuo lavoro, credo che l’ambizione fosse quella di vedere l’invisibile partendo dal visibile, vedere una realtà diversa partendo dalle immagini consuete, quasi domestiche: una sorta di metafisica del quotidiano, cui tu aggiungevi il fatto – direi paradossalmente “l’aggravante” – di una partenza fotorealistica. Oggi, la manipolazione della fotografia ne ha cambiato addirittura lo statuto, facendola passare dall’emblema della “presa diretta” sulla realtà all’esaltazione della manipolazione della realtà stessa, grazie alle nuove tecnologie elettroniche; allora era una sfida difficile.
ROSARIO GENOVESE: Considera che stiamo parlando della seconda metà degli anni settanta. Penso che con la foto non fosse allora possibile ottenere qualcosa del genere. Oggi si può, ma con Photoshop e con le diverse tecniche di manipolazione digitale che si trovano a basso costo sul mercato. In ogni caso a me ha sempre interessato l’aspetto artigianale del fare arte.
MARCO MENEGUZZO: Agli inizi degli anni ottanta alla tela dipinta hai accostato un’immagine fotografica con lo stesso soggetto, ma riproposta al negativo e in bianco-nero in maniera speculare.
ROSARIO GENOVESE: La voglia di sperimentare porta sempre a cercare nuove soluzioni. Rendere visibile ciò che è nascosto è una costante del mio lavoro. In quest’ottica il negativo fotografico dell’immagine era per me l’altro da sé del soggetto.
MARCO MENEGUZZO: Credo di poter interpretare anche linguisticamente quel tuo momento, e non solo psicologicamente. C’è una fotografia iniziale, poi un disegno, poi la pittura, poi la fotografia di quella pittura, il ribaltamento della stessa e la sua riproposizione fotografica sulla tela emulsionata: è un percorso di allontanamento e di riavvicinamento alla realtà, con un acme che si manifesta nella visibilità dell’opera, ma con tutto un aspetto processuale di presa di coscienza degli strumenti e dei linguaggi dell’arte che sta dietro il visibile della tela, ma che è comunque presente nella processualità del lavoro, componente fondamentale dell’opera. E’ questo che inteni con altro da sé?
ROSARIO GENOVESE: Per altro da sé intendo l’aspetto nascosto delle cose. Il fatto però che queste cose siano nascoste non vuol dire che siano irrilevanti. Al contrario esse giocano spesso un ruolo importante nel rendere stabili gli equilibri naturali.
MARCO MENEGUZZO: ma l’opera d’arte è tutto fuorché naturale: i suoi equilibri saranno formali, compositivi, psicologici, narrativi, mitopoietici, ma non “naturali”!
ROSARIO GENOVESE: L’elemento psicologico e mitico in effetti c’è, tant’è che l’altro da sé si manifesta anche nel fascino che l’immagine di Narciso esercita sullo stesso Narciso. Questo non esclude anche l’approccio scientifico giochi la sua parte. La stampa in negativo dell’immagine fotografica mi ha permesso di ricreare il processo percettivo e mentale che si mette in atto quando vediamo qualcosa. L’occhio elabora le immagini e dal positivo le ribalta al negativo, raddrizza l’immagine e organizza colori. Ho voluto ricostruire questo processo accostando la stessa immagine, vista però sia in negativo che in positivo.
MARCO MENEGUZZO: Attorno alla metà degli anni ottanta, c’è un nuovo intervento pittorico sulla superficie della tela: la traccia realistica del muro viene coperta da un passaggio velato di pennellate quasi a coprire il muro per trasformarlo in flussi di energia che orbitano attorno agli oggetti rappresentati.
ROSARIO GENOVESE: Sul piano formale quella è stata la risposta all’esigenza di confrontarmi – come artista, ovviamente – con il concetto di spazio elaborato da Albert Einstein. L’ho fatto dipingendo un flusso molecolare che in qualche modo evocasse dei campi di energia che si sviluppano attorno agli oggetti rappresentati, facendosi suggerire da essi un percorso orbitale. In questo modo volevo dare immagine al concetto di spazio che modifica la materia e di materia che suggerisce allo spazio come curvarsi. È stato a partire da questo concetto che ho cominciato a osservare tutti i corpi celesti e a realizzare i lavori riferiti agli astri. Da quel momento nei miei lavori prevale la forma curva o ellittica. Alcuni di questi sono tridimensionali e si presentano come calotte, proprio perché fanno riferimento ai corpi celesti. Usare tondi o forme che richiamassero quelle dei corpi celesti è stato un passaggio obbligato.
MARCO MENEGUZZO: Certo che tra partire dagli angoli delle vie di Catania e giungere allo spazio curvo della luce nelle galassie il passo non è breve…
ROSARIO GENOVESE: Tutto è iniziato guardando delle foto di corpi celesti del nostro sistema solare pubblicate su National Geographic. Ne sono stato affascinato e, volendone sapere di più, ho deciso di studiarne le caratteristiche. Da qui la decisione ulteriore di realizzare dei lavori che rispettassero caratteristiche e peculiarità dell’astro o del pianeta o del satellite di volta in volta preso in esame. Volendo mantenere un rigore scientifico nel realizzare le mie opere ho tenuto conto delle dimensioni delle superfici astrali, delle distanze che separano i vari corpi, dei colori che li contraddistinguono.
MARCO MENEGUZZO: E’ curioso che parli di “mantenere un rigore scientifico”, e ti interessi di questioni di fisica astronomica nel momento in cui la pittura prende decisamente il sopravvento sulla fotografia, quando, cioè, decidi di utilizzare uno strumento antico, personale, in fondo volutamente “impreciso” come la pittura. Avevi deciso di abbandonare il mezzo fotografico?
ROSARIO GENOVESE: Non direi. Non scattavo più personalmente le foto alle quali facevo riferimento, ma continuavo a sviluppare il lavoro a partire da immagini fotografiche realizzate dai satelliti. Quelle foto mi davano informazioni sulla superficie dei pianeti, quanto meno sul loro aspetto esteriore. Ho scoperto le loro rugosità, lo spazio di quei paesaggi che in qualche modo mi ricordavano alcune aree incontaminate dell’Etna. Ma questa era solo una suggestione, ovviamente.
MARCO MENEGUZZO: Una suggestione alla quale ti sei lasciato andare volentieri, da quanto posso capire.
ROSARIO GENOVESE: La mia era una interpretazione materica del colore originario. Per ottenere gli effetti che cercavo ho impastato il colore con terre, pigmenti colorati, ma anche sabbia dolce, polvere di marmo e, soprattutto, pietra lavica polverizzata.
MARCO MENEGUZZO: Capisco perché parli di sabbia dolce, ma faresti meglio a spiegarlo.
ROSARIO GENOVESE: Per sabbia dolce si intende una sabbia priva di sali e che pertanto non reagisce chimicamente con il colore. L’effetto che ne deriva è la granulosità del colore. Ho cercato questo effetto per avvicinarmi al materiale lavico.
MARCO MENEGUZZO: …aggettivo estremamente sintomatico, quel “lavico”…
ROSARIO GENOVESE: La pietra lavica è il materiale che più di ogni altro mi ha permesso di conferire al lavoro un umore che rimandasse alla mia identità territoriale.
MARCO MENEGUZZO: Certo, per un artista siciliano – e per di più catanese, della “città nera” -l’uso della pietra lavica assume significati che per chi non vive “sotto il vulcano” sono impensabili. Ma l’attenzione per i materiali è una costante dell’arte, almeno dagli anni Sessanta. Anzi, talora, come nell’Arte Povera, “il materiale è il messaggio”, verrebbe da dire, tuttavia l’uso che tu ne fai mi sembra molto diverso, più legato all’effetto finale che alla forza evocativa, iniziale e intrinseca della materia.
ROSARIO GENOVESE: Come dici giustamente l’attenzione per i materiali appartiene principalmente all’Arte Povera e decisamente io non sono un poverista. Non lo sono perché lavoro su un’idea di rappresentazione. Il materiale in quanto tale non mi è mai interessato, mentre mi ha sempre affascinato la capacità mimetica che un materiale può assumere all’interno di un’opera d’arte. Da questo punto di vista direi che, per quanti artifici e trucchi si possano usare, l’attenzione va rivolta a quello che vedi, non a quello che è. Ciò non toglie che mi è sempre piaciuto realizzare con le mie mani le strutture con le quali costruire poi l’opera. Ma questo è un aspetto ludico che appartiene a una dimensione personale piuttosto che al lavoro in quanto tale: non importa chi e come fa un lavoro, importa chi lo concepisce e qual è il suo effetto finale.
MARCO MENEGUZZO: Tuttavia, da quanto hai appena detto e da certi altri materiali che hai usato – come la corda – questi non hanno soltanto una funzione materica o formale, ma psicologica, culturale, storica, evocativa…
ROSARIO GENOVESE: Certamente ho scelto i materiali in rapporto al modo in cui ognuno di essi rispondeva alle funzioni fisiche e visive che cercavo. Ho utilizzato la stessa corda d’agave o di cocco usata dai pescatori per legare le piccole barche di legno nei porticcioli. Potevo avvolgerla sulle strutture elicoidali con facilità, quindi il suo uso è strumentale. Voglio dire che la corda, così come gli altri materiali che ho utilizzato, non aveva un particolare significato simbolico o metaforico, anche se, come tu dici, nel mio lavoro ci sono molti riferimenti alla mia cultura territoriale. Alcune di queste opere ovaidali le ho esposte sospese in aria con un sottile cavetto di acciaio. Tra i materiali che ho utilizzato c’è anche la carta vetrata, ma anche lamine di alluminio anodizzato, ritagliate e inchiodate sul supporto ligneo in modo da rivestirlo interamente. Ho fatto mia la tecnica che avevo visto utilizzare da artigiani lattonieri per rivestire antichi portoni. Ma, ripeto, il materiale in quanto tale è irrilevante, quel che conta è il suo effetto mimetico.
MARCO MENEGUZZO: A proposito di mimetismo, ho notato una sorta di mimetismo letterale – se non è un ossimoro… – nell’uso che hai fatto di superficie bombate, convesse: se lo spazio è curvo, e se i pianeti sono sostanzialmente sferici, anche la loro rappresentazione lo deve essere. Mi vengono in mente le difficoltà di sviluppare la superficie di una sfera su di un piano, che hanno assillato i cartografi, e li assillano ancor oggi, oppure quelle sfere celesti simili a mappamondi, dove il cielo stellato è rappresentato su una sfera, come se lo potessimo vedere dal di fuori…
ROSARIO GENOVESE: Inizialmente ho utilizzato un colore pastoso e materico oltre a diversi tipi di impasto, perché volevo richiamare la superficie astrale per come appare nelle immagini fotografiche alla quali facevo riferimento. Quando ho cominciato a costruire una figurazione più di fantasia ho utilizzato una pittura più fluida, non materica.
MARCO MENEGUZZO: Mentre i telai sono sempre di forma tonda.
ROSARIO GENOVESE: Sì. Dalla metà degli anni ottanta utilizzo dei telai tondi. Alcuni sono a calotta, altri leggermente bombati, altri piani. I supporti contribuiscono ancora oggi a definire la natura del soggetto.
MARCO MENEGUZZO: Guardi ancora le stelle?
ROSARIO GENOVESE: Da quando uso un telescopio la mia attenzione si è concentrata sulle costellazioni. Le costellazioni hanno una storia antica, ricca di letteratura. Questo mi ha spinto a studiare la configurazione e l’identità dei raggruppamenti, che mi affascinano perché conferiscono identità e riconoscibilità alla volta celeste. Ne ho ripreso gli schemi spaziali nelle installazioni composte da più tele, che simulano la spazialità curva dell’universo.
MARCO MENEGUZZO: Facciamo un passo indietro. Torniamo a parlare dei lavori non realizzati su superfici piane.
ROSARIO GENOVESE: In effetti quelli non erano quadri nel senso puro del termine. Erano anche sculture. Una volta realizzata la struttura – il corpo dell’opera – la dipingevo con un solo colore. Questo colore faceva riferimento al significato simbolico e all’appartenenza mitologica che la stella veniva ad assumere attraverso il nome che le era stato assegnato.
MARCO MENEGUZZO: Insisti sull’approccio scientifico del tuo lavoro, ma poi a guardare la tua pittura recente a prevalere è una figurazione libera e di matrice postmoderna, che sul piano linguistico e stilistico mischia tutto ciò che è possibile mischiare: arrivi a definire certi pianeti come “tuoi” (mi viene in mente per esempio l’opera “la mia Venere”…), e ricopri le superfici di narrazioni i cui protagonisti sono figure che, avvicinate ai pianeti, non possiamo non pensare come mitologiche. Questo rivolgere lo sguardo al cosmo, alle stelle, mi sembra che denoti un bisogno di entrare in contatto con l’infinito, come se guardando col telescopio ti aspettassi di vedere qualche angelo.
ROSARIO GENOVESE: Hai ragione. Ma non c’è contraddizione o antitesi tra l’interesse per la scienza e il bisogno di infinito. Cerco l’infinito, è vero, ma senza distaccarmi dalla realtà del quotidiano. La mia è una ricerca metodica e scientifica, ma anche passionale e poetica. Ognuno di noi possiede dentro di sé l’infinito, e ognuno di noi trova il modo di confrontarsi con esso a modo suo. Io lo faccio attraverso la mia arte.
MARCO MENEGUZZO: E’ come una ricerca alchemica applicata all’astronomia, oppure, più semplicemente, è una variante di quell’arte esoterica e antica che è l’astrologia: la scienza dell’osservazione è solo l’aspetto iniziale che deve cedere il passo alla sapienza, all’intuizione, al sentimento di comunanza con il cosmo. Gli antichi da questo sentimento derivavano il carattere dell’essere umano…tu come artista costruisci un sistema cosmologico che parte dall’osservazione per arrivare alla “relazione”, allo stabilire un legame simbolico tra macro e microcosmo.
ROSARIO GENOVESE: Studio la posizione delle stelle, la distanza tra l’una e l’altra, ne analizzo la magnitudine apparente e da questi dati ricavo il diametro in scala della tela sulla quale devo lavorare. Mi interessa anche la categoria a cui appartiene ogni singola stella: supergigante rossa, nana bianca e gigante blu. L’attenzione è rivolta anche al nome che le è stato dato. Come sanno tutti, le stelle sono state per secoli punti di riferimento e guida per i viaggiatori. In virtù della sua brillantezza e della sua posizione, ogni stella ha assunto inoltre una propria simbologia, legata peraltro alla mitologia: la mano del gigante Orione, la sua spalla, la sua spada o la sua cintura. Guardo a tutto questo per ottenere le informazioni necessarie per entrare nello spirito dell’astro e rispettare i contenuti che gli danno identità formale e visiva. A questo punto scrivo un testo poetico dedicato alla singola stella, e anche alla costellazione. Tutte le mie nuove opere ne hanno uno, in cui racconto la storia dell’astro o della costellazione cui fa riferimento.
MARCO MENEGUZZO: Ora dunque é entrata in campo anche la parola! Il cerchio si chiude anche formalmente, come quando Piranesi incideva quel cartiglio di parole tra le rovine fantastiche delle sue vedute romane. Questo almeno per quanto riguarda l’aspetto formale e visivo della parola… ma tu la usi in senso letterario, quasi un completamento ideale, un superamento suggerito della forma visibile che si trasforma in parola, in idea, non più visibile ma solo evocabile.
ROSARIO GENOVESE: Si tratta di due momenti diversi ma complementari. Entrambi si riferiscono al mio “sognare fantastico”. Gli artisti hanno sempre avuto la pretesa di far sognare gli altri con ciò che fanno. Questa presunzione è alla base del fare arte, senza questa molla non si va da nessuna parte. Io so bene che il limite maggiore al quale va incontro un artista è ritenere che gli altri possano provare le stesse cose che prova lui mentre realizza il proprio lavoro. Mettiamola così: mi piace pensare che chi guarda una mia opera o legge i miei brevi testi avverta un centesimo della scossa che avverto io mentre lavoro.