Cosmogonie notturne

di Marisa Vescovo

Varuna il più invincibile degli dei della mitologia indo-europea, ha una sua grande arma, una sua magia di sovrano “legatore-slegatore”, una magia creatrice di forme e illusioni, la quale gli consente anche di amministrare ed equilibrare il mondo. Quest’arma si precisa, il più delle volte, in forma di laccio, di nodo, di vincoli materiali, o figurati. Anche il labirinto è inteso talora come un “nodo”, il quale deve essere “snodato” per consentire di arrivare alla iniziazione. La vita stessa è un “tessuto” (a volte, un tessuto magico di proporzioni cosmiche), oppure un “filo” che tiene la vita di ciascuno dei mortali. Questa polivalenza del complesso della “legatura”, è probabilmente dovuta al fatto che l’uomo riconosce in questo complesso una sorta di archetipo della sua situazione nel mondo, una costellazione di archetipi (la tessitura del Cosmo, il filo del destino umano, il labirinto, la catena, o la corda, dell’esistenza umana, ecc…).

Si può dire che una delle funzioni principali del mito come del pensiero è quella di unificare i diversi livelli del reale, che, sia per la coscienza immediata, sia per la riflessione, risultano molteplici ed eterogenei.

L’artista Rosario Genovese, da tempo lavora su questi temi, e costruisce i suoi personaggi-uova- simbolo del “centro del mondo” con la corda, la quale può ripiegarsi su sè stessa in modo da formare intrecci e spirali, e nel complesso della struttura dell’opera ogni incontro degli estremi della corda rappresenta il punto in cui agiscono le forze dominanti: la condensazione e la coesione di un “aggregato”, metaforico dell’iniziazione mistica del labirinto, in cui è opportuno notare che un “legame” può essere concepito come qualcosa che incatena, o come qualcosa che unisce, e anche nel linguaggio corrente la parola possiede questi due significati. L’oggetto plastico della scultura tradizionale, o quello a funzionamento essenzialmente simbolico del Surrealismo, è invece una sorta di “trompe-l’oeil” a rovescio, nel quale non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura.

In questo ultimo anno ai materiali “legatori” si sono aggiunti anche gli strofinacci, la pozzolana, il catrame, il vetroresina che Genovese percorre con vaga, ma intensa nostalgia dell’innocenza, dell’infanzia: ecco allora comparire la sagoma sacra dell’Etna, il profilo dell’isola, il fuoco, le terre nere e laviche del vulcano. Si sente attorno a tutto ciò quella profonda nostalgia regressiva che pervade una parte della cultura degli ultimi anni. Il colore che ora ossessivamente impregna gli stracci incollati di Genovese è il nero un mondo lavico notturno illuminato dal fuoco “centrale”. La notte non e dunque soltanto il quotidiano ritorno al caos, la perdita di forma di ogni cosa, è anche e soprattutto l’elemento che scatena la paura. Il buio, anziché essere un vuoto, un’assenza di oggetti, si popola di fantasmi amati come quelli della montagna “sacra”, del fuoco quale potenza generatrice, indicante una vita sotterranea e turbolenta.

In molti degli ultimi lavori di Genovese notiamo che tra i materiali di un mondo notturno avviene un’esplosione di luce (Isola,Aetna 1,Isola Aetna), è la nascita stessa che si rivela come apparenza della realtà esterna. Per questo il ritorno del fuoco-luce è visto spesso nelle religioni, nel mito, o nelle più varie espressioni della cultura, come una liberazione, la vittoria gloriosa dell’energia sulle potenze del caos e del male. Queste magiche pietre nere, che una volta forse erano degli aeroliti, quindi di origine “celeste”, diventano ora dei totem di una feticistica sacralità che si raccoglie-numinosa, istantanea-intorno all’immediatezza di una realtà che si attraversa per dare senso al non senso guardando magari ai teoremi della scienza che pertengono le galassie, e le tensioni della linea curva. E quindi come un gioco di rinvii: il mondo rivelato del giorno cela il suo segreto nella coscienza notturna, mentre la coscienza nella sua notte indeterminata, allude e rinvia al mondo oggettivo, alla stabilità e alla presenza delle cose diurne.

Così le rêveries trovano uno spiraglio per entrare, e la memoria combina più facilmente i contenuti e le spinte del desiderio, le aspettative e i timori, ripesca dal passato immagini e ricordi e li introduce in processi di costruzione nuovi. E allora, gli stracci incollati, le corde incollate, i cenci neri di catrame scoprono una loro geometria segreta, così nel degrado della materia si compie un recupero lento e graduale dell’organico non nel senso di una cmda naturalità, ma nel senso, più umano, di un sentimento ritrovato, di una timida proposta di convivenza, di un ordine anche matematico ancora allo stato nascente, in fieri, che nel suo farsi si formula prima in “figura”.

Genovese, come già i Surrealisti, cerca una esplorazione dell’inconscio cerca il magico, il poetico, ossia l’inatteso, l’inconfondibile, ciò che non si lascia sostituire né scambiare. Infatti l’artista cerca con il suo lavoro, di allontanarsi dall’astratto e anonimo ingranaggio che coordina, sintonizza, macina, la vita degli uomini.

In questo vivere di oggi, che si risolve poi nell’essere consumati e consumatori, in un’ebollizione di luoghi comuni, di slogans, egli cerca di cogliere di sorpresa le immagini e le cose, per immobilizzarle nel loro peso, di cui potrebbero anche sembrare prive. È quindi come alludere ad un rimescolamento delle carte in cui la necessità è messa da parte e il caso e la possibilità prendono il comando.

Dicembre 1989

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