Cosmologie immaginarie
di Francesco Gallo Mazzeo
Cosmologie come innamoramenti, come rivelazioni,
racconti che si destano improvvisi, come gli sguardi della
volta celeste, facendo danzare la vista in una grande
armonia senza fine, che non si fa raccontare, non si fa
definire, tanto è il limite senza limite che viene dalle
variazione, dalle fughe, dalle geometrie e da tutto
quanto è pesante ma è leggero e fisico, ma è
metafisico. Con tutta una serie di duplicità, che sono
molteplicità, ma anche unità, perché tutto si tiene in
uno spettacolo inevitabile, che fa trattenere il respiro,
sospende la stessa poesia, la parola, per poi destarla
sotto forma di sogni ad occhi aperti, di teatralità
che fa il giro largo dell’orizzonte, da cui tutto emana
e di cui anche noi siamo parti, in uno spazio e in un tempo,
che fa parte dello spazio e del tempo. Dalle cosmiche
apparizioni in cui, divinità, angeli e demoni, hanno
dominato fantasie e sogni, allucinazioni e incubi
si ergono oggi enigmi appena sfiorati dal pensiero,
narrazioni e saperi che superano la portata antropologica,
perché sono orientate ad infinito, ad infiniti, dove monologo
interiore e teorie scientifiche, accompagnano i sogni
alle porte di una grande porta, là dove comincia
il viaggio degli anni luce, tanti che si perdono gli alfabeti
del possibile, mentre quelli dell’impossibile si avanzano,
presentano come sirene tentatrici e bisogna indossare
le sembianze di Ulisse, se si vuole resistere agli incanti
desideranti del nulla, risolvendole in canto immaginario.
Immense praterie a cui attingere risorse che
si possono aggiungere ai reperti della fantasia, per
stare con i piedi ben piantati a terra, mentre gli occhi
si fanno sedurre dal treno delle galassie che fanno
rotta per altri infiniti, espandendo, oltre ogni
limite umano, un quid che non è umano, ma che
è certamente confortato dal sapere che, tra Venere
e Marte, c’è una Terra che non s’è accontentata
di albe boreali, foreste misteriose, cime tempestose,
ma s’è dotato di piccole sfere e minuscole pupille,
dirette come guizzi inesorabili, a cui non basta una
goccia, ma vogliono il mare, che sono costituiti da un
uno, più uno, ma vogliono il tutto. Sono gli occhi, le
macchine biologiche, che si lasciano attraversare dalla luce,
ma si adattano al buio, cominciando (e sono passati millenni)
a contare le stelle lucenti, i pianeti opachi e sonnolenti,
destando astrologhi e maghi e poi Galilei, che in tanti
non smettono di scrutare e annotare e sono arrivati
sentirne il suono. Un suono inudibile dall’udito normale,
comune e per questo sacro nella sua etimologia essenziale,
che s’accompagna alla moltiplicazione dei sensi, che
vogliono udienza nel grande palazzo, dove si esercitano
le antiche muse della fantasia e le ultime nate, ma poi
sempre penultime archeologie del sapere, che oggi più
che mai è un sapere quinternato solo dalla coscienza
di non sapere, cosa si nasconde dietro le artisticità
del mito, dietro le pareti apparenti, ondulanti del simbolo.
Perché la nostra modernità ha sconvolto tutto un mondo e
tutte le certezze si sono messe in via, seguendo rotte
sconosciute anche a se stesse, anche se assegnate
all’uno tutto come ad un destino, scelto dal caso.
Duplicità binaria, si chiama l’attuale dialettica
artistica, una scorrevolezza cosmografica che si
basa sul ribaltamento negato affermato, come un detto
non detto in cui viene confermata una surrealtà data,
che ha una sua verità propria, innalzata dalla volta della
fantasia contaminante del segno disegno e di successiva
coloritura pittura, in un dialogo trasversale, tra il se e
l’altro da se, dato da un gioco di algebricità ellittica,
in geometricità che rapiscono lo sguardo e mettono in
moto la mente figurando gli specchi dell’astrazione,
commento aureo alla spazialità immensa, compresa nel
giro d’orizzonte, che è un limite, ma anche un mezzo,
di cui Rosario Genovese si serve come di una grande
macchina che lo conduce, col suo potente motore, nel luogo
dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande,
che finiscono, nella nostra mente, che è frammento
della consapevolezza dell’universo, a partire dal segmento
aureo di Archimede che mette in rapporto la parte
minore, cioè noi, con la parte maggiore, l’infinito.
Ecco, mi sembra proprio questa la parte evocativa
di queste ammalianti visibilità, l’avere una passione
incorporata, l’avere una ideologia, innamorata e non
l’avventura suicida, il salto nel burrone, una speciale
sua mappatura personale da realizzare in arte, senza
nessuna grammaticaticalità definitoria, ma come una
stimolante opera aperta, che tutti possono compiere,
con l’accortezza di non lasciarsi imprigionare da un
delirio d’onnipotenza. Tanto resta da dire, tanto da udire,
da svelare, un tanto di cui non conosciamo il quanto,
perché non solo non si lascia vedere mai, del tutto, ma
non si lascia nominare, rimanendo come guida sibillina.
L’emozione della lenta emersione visiva, di tutto un
bestiario fantastico, là dove da lontano sembra non
esserci niente altro che un magmatico fluttuare delle
essenze distillate da metamorfosi barocche, situando
una preziosità pittorica nella stessa veste d’alchimia del
caos, facendo di tutto, un punto di vista, che a seconda
di circostanza, diventa convegno delle massime distanze
reali, in cui le identità si perdono o di quelle umanistiche,
della nostra ottica fragile aerea, ma sintattica, in cui le
particolarità, non solo si vedono, ma vivono, addirittura.
L’emozione è un scatenamento che qui viene contenuto,
sollevato dalla sua tramatura serrata, terrosa, sanguigna,
babelica, verso una contemplazione attenta e rapita,
che fa della sua stessa fisica, una ricerca, una stanza
rinascimentale delle meraviglie, che dello studium,
una teoria delle reliquie enigmatiche, che non si sciolgono
mai, perché sono già sciolte nell’acquaticità dell’aria,
che sono la stessa vaporosità della nebbia, quando c’è
nebbia, dell’ora nona d’agosto, quando c’è l’ora nona
d’agosto. Siamo in una surrealtà temperata, cartesiana,
che non si lascia sgomentare dalla vastità dei problemi
che si pone di fronte e risolve gli interrogativi del sogno
con una medianicità consapevole che l’invisibile è tale
negato solo a chi non sa vederlo. Tanto che i colori sono
una complementarità della scrittura prima, immaginaria e
si consolidano come tracce della memoria individuale
e collettiva che fa sembrare identico ciò che è diverso e
diverso ciò che è identico. Un caso come un destino a chi
va per segni, finisce col fare incontrare segni, a chi va
per colori, colori, a chi va per stelle, inevitabilmente, stelle.
Un astrolabio personale, una varia cartografia impalpabile,
che si compone lentamente, per come è distillata la genesi
di ciascuna opera, che non si lascia sedimentare nel breve,
nel tocco e nel gesto, ma ha bisogno d’un corteggiamento
lungo trobadorico, senza di cui l’immagine resta implicita,
implosa, chiusa, ermetica, al di là dello stesso processo di
distribuzione fotonica della luce, in un limbo di triste
indifferenza, di depressione sofferente del nulla. E’ questo
il salto di qualità genovesiano che fa del suo paziente
tessuto pittorico uno strumento di viva espressione, per
non lasciare il vuoto, là dove vuole mettere il pieno, per
non lasciare non detto, fantasma, là dove vuole situare
la sua fondazione del dire. Un travaglio sull’identico e
sul differente che è affidato ad una ritualità personale che
ha una sua circolarità, ma anche una sua spiralità, che
passa sugli stessi momenti, ma senza lasciarsi intrappolare,
perché non si tratta affatto di un eterno ritorno ma di una
metafora che viene lenta e da lontano, dagli anni ottanta
dell’incontro con le tesi einsteniniane, dell’interesse
per sole e galassie con la sua vocazione di forme, colore
e materia. Nel tempo gli sono passati per le mani, tante
e tante strumentazioni, ma che sono rimaste appunto
tali, anche se hanno concretizzato opere su opere, perché
per lui il materiale, in quanto tale, è irrilevante e quel
che conta è l’effetto mimetico. Dopo avere esplorato
simbolicamente la terra, il suo osservatorio si è diretto
irrimediabilmente alla configurazione spaziale, passando
per diversi momenti di appropriazione, utilizzando i
pieni e i vuoti come complementazioni come sollevazioni
che dalla mitologia si ergono verso una attualità,
in cui lo spazio è più personale, incontro tra pensiero e fare.
L’uno che si divide in due, diventa dittico, può
diventare polittico, diffondersi nella molteplicità
e poi tornare all’origine, perché in fondo, ogni
ricerca tende a trovare se stessa, come compiendo
un proprio ritratto che non trova mai la propria
definizione, perché manca sempre un particolare per
definire il tutto, che poi è un organon, una struttura
la cui pellicolarità nasconde il travaglio della
complessità e della diversità, senza di cui sarebbe una
insignificante mono cellularità, una referenzialità
autoriflessiva sterile. Tutto questo in una pitturalità
fervida che si pone i problemi della propria spettacolarità,
come elemento conturbante, a pieno titolo accolto
nella modernità liquida del nostro tempo che non
si esaurisce nelle luci della ribalta, ma le accoglie
nel pieno della propria identità di confine, che non
è figurazione per figure e non è astrazione per astrazioni,
ma un riuscito ibrido della creatività astrale, come
se non bastassero le forme e le sotto forme dell’universo,
moltiplicabili per dieci, per cento, per mille e non
mancasse altro che una aggiunzione artistica, animata da
una sub stantia poetizzante che non è nè realistica, né
reale, ma espressione di una disperata fede nella
ribaltabilità, nell’ineluttabile, che nella società festante
dello spettacolo, si ritrova come suggestione di una
trama del sentirsi e dell’essere diversi. Una diversità
dionisiaca, certo, ma dotata di una certa sobrietà, data
dalla lentezza della costruzione delle opere, che impone
una certa classicità, più da tempo passato, antico,
che da tempo proiettato nel futuro, come in un effetto
Giotto, che torna spesso sulla ribalta, come ricerca, originale.
L’inevitabile effetto del sublime si coglie nel panottico
di tutta l’opera, nel suo sviluppo reale, formale e
concettuale, che porta nel tempo, gli scatti, gli scarti,
tutte quelle cose che colpiscono nel segno di una
dilatata coscienza che non si ferma, non si può
fermare, perché ha “scelto” questa professione di fede,
che non si fa svalutare da ogni mancata apparizione,
ma che ostenta sicurezze, la cui consistenza mentale
non è misurabile con i metri normali, ma urgono altre
realizzazioni, successive, perché è come un film, una
immagine che segna l’altra, la imprime e la significa,
senza di cui non c’è pace culturale, nel processo di nascita
di una poetica, di un’estetica, d’una critica, di una fisica.
Una bella varietà, di un artista che s’è creato una cultura,
una sapienza profetica, che va oltre il conosciuto. E crea
nuove confidenze con una potenza che è “silenziosa”,
fertile e ci assicura che non c’è il vuoto tutto intorno
a noi, ma una infinita moltitudine segnica, che nel passato
ci ha fatto da luce alchemica durante la notte, assicurando
che durante il buio gli occhi possono vedere oltre, altro
e i sogni possono sognare. Perché a questo servono i percorsi
della fantasia ispirata, quando non restano fantasmi della
mente e si concretizzano come oggetti della concretezza,
come talismani creativi, che rassicurano di non perdersi
quando vengono meno le mille certezze ordinarie e non
resta che fare a quelle straordinarie ardimentose, anche
lontane, pindariche, a cui solo gli occhi possono, per primi
accedere, essendo più forti dell’udito, del tatto, nell’olfatto
che hanno bisogno della vicinanza e del valore tattile,
mentre la vista può arrivare lontano, lontano, dove mai
piede potrà poggiare o voce potrà chiamare, in spazio infinito.