Le costellazioni di Rosario Genovese
di Demetrio Paparoni
Dagli inizi degli anni ottanta Rosario Genovese realizza dipinti tondi, ellittici e di forma semisferica che fanno esplicito riferimento a pianeti, satelliti e astri della nostra galassia. Inizialmente, per dare volume a queste forme astrali Genovese aveva utilizzato anche calotte lignee. Per quanto queste opere possano essere viste come unità a sé, a partire dal 2000 sono concepite come parte di un insieme che va a costituire una costellazione o un sistema planetario. Le dimensioni dei singoli quadri e la distanza tra l’uno e l’altro, la posizione loro assegnata nelle installazioni e i colori dominanti fanno così riferimento al sistema planetario preso a soggetto. Ciò induce Genovese a installare i propri dipinti anche sul soffitto e sul pavimento, o a sospenderli a mezz’aria. Essendo nella realtà ogni costellazione o sistema planetario diverso dall’altro, ogni installazione presenta una sua peculiarità.
A fronte di una impostazione scientifica, Genovese soggettivizza ciascuna opera attraverso una figurazione di pura fantasia, nella quale a tratti emergono elementi che rimandano all’iconografia mitologica e ai contenuti letterari che nel tempo hanno caricato gli astri di significati. Si può così dire per queste opere ciò che Sartre ha detto a proposito del simbolo: “L’immagine non compie né la funzione d’illustrazione né quella di supporto del pensiero, perché non è nulla di eterogeneo al pensiero. Una coscienza immaginativa comprende un sapere, delle intenzioni, può comprendere parole e giudizi”. Questo vuol dire che “si [può] giudicare sull’immagine, ma che nella struttura stessa dell’immagine possono intervenire giudizi sotto una forma speciale: la forma immaginativa”.1
Coerentemente all’attitudine postmoderna che la metodologia assunta da Genovese denota –del resto la sua ricerca è stata avviata agli inizi degli anni ottanta –, sul piano linguistico e formale la sua figurazione fa sintesi di stili diversi, che portano in sé la memoria dei grandi maestri figurativi del primo Novecento. Questo modo di concepire l’arte ha caratterizzato buona parte degli anni ottanta e ha continuato a rappresentare una costante per molti artisti emersi in quegli anni, nelle cui opere l’originalità della forma e del linguaggio non dev’essere cercata tanto nei dettagli – quasi sempre di per sé familiari –, quanto nelle modalità del loro accostamento. Una corretta lettura dell’arte di Genovese non prescinde dall’analisi del Postmoderno e dal modo in cui esso si è sviluppato nel tempo attraverso l’opera di autori diversi tra loro ma accomunati da una poetica dell’accumulo (non a caso si è spesso parlato di neobarocco), caratterizzata dall’accostamento di segni una volta ritenuti inconciliabili.
Genovese non ritiene che l’immagine esprima una verità, né che il soggetto dell’opera sia nella rappresentazione fantastica dei corpi celesti. Lavorando sulla superficie del dipinto con una sorta di automatismo – che escludendo la citazione finisce per reinventare le immagini del mito –, egli si propone di far convivere il rigore dell’apparato scientifico e un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale, basato sull’associazione delle suggestioni letterarie (i racconti che si sono costruiti nel tempo attorno ai singoli astri, ma anche le informazioni fornite dalla scienza, anch’esse assurte a una dimensione letteraria). Per comprendere a cosa miri questa pratica può essere di aiuto David Hume, secondo il quale l’idea che ci facciamo di un oggetto e l’oggetto in quanto tale sono la medesima cosa. In altre parole, per Genovese dare immagine agli astri significa avere coscienza del Cosmo fino a sentirsi parte di esso. E poiché ogni astro porta con sé la memoria delle mitologie che incarna, ridefinirne l’immagine (la superficie del dipinto) attraverso un processo di conoscenza irrazionale significa partecipare all’immortalità del mito, che si rigenera per mano degli artisti, dei poeti, dei letterati e di chiunque creda che le acquisizioni scientifiche smentiscono le credenze e le superstizioni, ma non per questo ne alterano le capacità evocative.
La questione non è estranea al Modernismo, come dimostra Rothko quando afferma che “la rappresentazione di questi miti nei nostri dipinti deve avvenire alle nostre condizioni, che sono contemporaneamente più primitive e più moderne dei miti stessi. Più primitive, perché ci interessano le radici ataviche e primordiali dell’idea piuttosto che la sua aggraziata versione classica. Più moderne, perché vogliamo restituire il senso di quei miti attraverso la nostra esperienza”.2 Ed ecco il nocciolo della questione: per Genovese non solo il divino è racchiuso nel Cosmo, ma il divino è il Cosmo stesso. Come gli antichi egli considera il Cosmo divino ed eterno, e non creato dal nulla come invece ritengono ebrei e cristiani. Nella tradizione pitagorica l’armonia del Cosmo generava una musica che gli uomini non erano in grado di ascoltare perché, essendovi immersi, non la percepivano. Contemplare il Cosmo equivaleva dunque a contemplare l’ordine divino e consentiva agli antichi cosmologi di utilizzare concezioni di perfezione geometrica come il cerchio o la sfera in termini tanto scientifici quanto filosofici e teologici. Nella forma circolare degli astri, che Genovese riprende dipingendo su telai tondi, gli antichi vedevano la perfezione, contraddistinta dall’equidistanza del centro da ogni punto della circonferenza. Il movimento circolare inoltre non ha inizio né fine, ma è caratterizzato da un eterno ritorno. Nel movimento lineare la ripetizione invece non è possibile, come non è possibile far coincidere nascita e morte. Visto con gli occhi di Aristotele – considerato cioè come il giusto equilibrio tra eterno e divino –, è facile intuire come, sul piano della mitologia e della creazione poetica, il Cosmo si sia prestato ad assumere le forme più elaborate. Per altro verso, come nel mondo antico mitologia e concezioni scientifiche si intrecciavano, similmente, dopo il Rinascimento, l’artista coniuga le tradizioni mitologiche e neoplatoniche con i risultati del sapere matematico che si ponevano a fondamento della rivoluzione scientifica all’origine della fisica moderna.
Considerandosi parte del tutto, Genovese sente che non c’è nulla di ciò che accade nel Cosmo che non influenzi l’esistenza di ogni singolo individuo, dunque anche la sua. Questo non significa credere che le posizioni e i movimenti degli astri determinano il nostro destino. La cultura moderna si è affrancata dalle superstizioni e dalle leggende, ma non ha mai smesso di ritenere che l’uomo moderno può essere compreso solo se calato all’interno dalla sua cultura di appartenenza, fatta di scoperte, progressi scientifici e grandi rivoluzioni di pensiero ma anche di mitologia e narrazioni fantastiche, disancorate dalla realtà e dalle esigenze pratiche di ogni giorno. Se cedessimo alla tentazione di pensare che ad aver senso sono solo le certezze scientifiche, che dev’essere solo la razionalità a guidare le nostre vite, ci priveremmo di quell’ampio ventaglio di emozioni che ci consentono di rimanere in rapporto simpatetico con il Cosmo.
Demetrio Paparoni
NOTE
1 Jean-Paul Sartre, Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1948, p. 153.
2 Mark Rothko, Il ritratto e l’artista moderno, trascrizione dattiloscritta da una conversazione radiofonica con Adolph Gottlieb trasmessa da Radio wnyc il 13 ottobre 1943. In Mark Rothko, Scritti, a cura di Alessandra Salvini, Abscondita, Milano 2002, p. 23.
© Demetrio Paparoni, 2011