Rosario Genovese
di Giorgio Di Genova
L’occhio di Saro Genovese si esercita sull’oggettività delle immagini per rivelare ad un tempo la spettralità del dato reale e le fondamenta dei processi d’astrazione propri della pittura. Per tal motivo accompagna da qualche tempo lo sharp focus della sua pittura con la fotografia al negativo e il disegno progettativo, ponendo questi due momenti come “alone” dell’immagine dipinta. L’opera compiuta, così, presenta in uno tre distinti momenti del processo elaborativo, ricomponendolo in un ordine formale, che rimescola le fasi del suo lavoro senza rispettarne le scansioni cronologiche. Difatti l’immagine fotografica, che è il primo momento del suo “pensare” l’opera, conclude i suoi trittici, che invece prendono avvio dal disegno a matita sulla tela, che per quanto lo riguarda non è il primo momento del suo fare, bensì è il momento intermedio tra l’occhio fotografico e l’occhio pittorico, cioè il momento più avanzato dell’analisi, dove l’immagine viene studiata attraverso il procedimento astrattivo del disegnare, recuperando in tal modo la primarietà del disegno nelle arti manuali della visione, quasi a voler ribadire che, come sosteneva nel Trecento Cennino Cennini e poi nel Cinquecento Giorgio Vasari, il disegno appunto è alla base della pittura, oltrechè della scultura e dell’architettura.
Ogni suo trittico, in realtà, evidenzia la centralità della pittura, pur nella indagine analitica dei suoi momenti sia antichi, condizionati dalla tradizione che basava la pittura sul disegno, e sia moderni, condizionati dall’ottica fotografica, che è divenuta ormai, da Degas agli iperrealisti, passando per Khnopff, Kubinn, Man Ray, Duchamp, il fotomontaggio dei dadaisti tedeschi, Bacon giù giù fino alla mec-art, Gerhard Richter e gli artisti concettuali, non solo un mezzo di conoscenza del reale, ma anche di espressione, tanto che potremmo dire che dalla nascita del dagherrotipo la pittura è stata sempre costretta a fare i conti con la fotografia, o per correggere gli errori dell’occhio, come appunto è stato per Degas sulla scorta delle esperienze di Muybridge, o per appropriarsene direttamente, come è avvenuto in tanta arte dadaista e concettuale, o per delegare l’obiettivo fotografico, come gli iperrealisti statunitensi che hanno sostituito alla realtà visiva la realtà fotografica, o per negarla, come hanno fatto e fanno i pittori cosiddetti astratti. Genovese pure fa i conti con la fotografia, quando riporta nel suo studio le immagini di angoli della sua Catania, che nelle sue peregrinazioni hanno captato la sua sensibilità di pittore. Ma, a differenza di tanti, non si sente a suo agio nel ruolo del Ciclope meccanico e recupera così nel disegno e nella pittura l’altro occhio, escluso dall’obiettivo fotografico. Per lui la parte viva dell’opera rimane sempre la pittura, che infatti pone tra i due “scheletri” del disegno e della fotografia, per esaltarne nel contrasto la “carne” visivo-concettuale. Più che tendere al trompe-l’oeil egli sembra cercare i reconditi e misteriosi esiti della pittura come trompe-l’esprit. Per questo, ama sostituire alla sintesi del pezzo unico dipinto, l’analisi dei pezzi tripli, dove sciorina, assieme alla sintesi pittorica, la tesi della progettazione disegnativa e l’antitesi della radiografia fotografica. La pittura allora diviene il momento della folgorazione cromatica posta tra il bianco e nero del disegno e della fotografia, come una sorta di apostrofo che separa il bianco dal nero, o se si preferisce la luce delle tenebre (non si dimentichi che la fotografia si sviluppa nella camera oscura).
Alla base del suo operare c e un recupero della magia stregonesca che accomuna il pittore e il fotografo, ambedue rapinatori di immagini del reale, ambedue illusionisti che riescono a far vedere ciò che in realtà non c’è, a rendere in definitiva visibile e presente l’assente. Del resto, anche il suo insistere, per una sorta di coazione a ripetere che ricomplica quella del riproporre sempre gli stessi soggetti, sul numero tre rivela sostrati magici. Il tre è numero magico per eccellenza, in quanto legato alle tre fasi visibili della Luna, che, come ognun sa, è in tutte le mitologie trina é considerata tra l’altro dea della magia. Da essa derivano le trinità delle grandi religioni (Trimurti indiana, Trinità cattolica), le personificazioni trine della mitologia greco-romana (Erinni, Grazie, ecc.); ad essa sono ispirati tutti i misteri della nascita, della morte e della resurrezione, ripresi dal Cristianesimo nei tre giorni agli inferi di Gesù; con essa ha attinenza la costante legge della triplicazione del folclore e delle fiabe di tutti i popoli, quella legge per la quale l’eroe di miti o fiabe raggiunge la realizzazione dei suoi desideri solo dopo aver superato tre ostacoli o tre prove perigliose, di cui l’ultima è sempre la più difficile. Ecco, allora, che la coazione a triplicare le opere da parte di Genovese, rivela un impulso inconscio di profondi sostrati ancestrali, dove la realizzazione dei desideri si raggiunge nel superamento della terza prova reale, quella della pittura, che è la più difficile, e dove non sono del tutto assenti riferimenti lunari. I suoi trittici si propongono, dunque, anche come tre “fasi”, dove il disegno su tela rimanda al primo quarto, la pittura alla Luna piena, la fotografia all’ultimo quarto, che prelude alla Luna nuova, cioè alla Luna nera, considerata la dea della Morte, o il Primo Morto in tutte le mitologie della terra, perchè si pensava che in quella fase essa andasse sottoterra, cosa che ci aiuta a meglio comprendere i risvolti psicologici per cui Genovese nel rimescolamento dei momenti operativi scelga come terza “fase” quello della fotografia al negativo, che nella sua spettralità sembra preludere appunto alla morte.
Nascita, vita, morte e resurrezione sono simbolicamente insite nelle operazioni espressive di Genovese, non solo perchè dopo la fine di ogni opera un’altra ne comincia, ma anche perchè gli angoli della sua Catania lo attraggono per le sedimentazioni di passato e presente e di presente e futuro, reperibili nei muri calcinati, nei contenitori di contatori, nelle scritte sbrecciate o semicancellate, nelle affiches strappate, elementi tutti che a loro modo documentano il fluire del tempo, insomma una esistenzialità metafisica dei luoghi di cui l’uomo, di essi più caduco, resta impotente testimone. E ogni volta che Genovese scatta una foto, è come se si fissasseuna pagina di storia della sua città, una pagina di storia che poi a studio ripercorre accuratamente, dopo averla analizzata tramite il disegno, con la sua pittura, cosa che fa con un atto d’ amore che egli rinnova in continuazione.
Ecco, il suo vedutismo urbano nasce da questo amore di complessi spessori umani e psicologici, che si esplica nell’esecuzione precisa ed amorosa, nella rivisitazione attenta ed affettuosa di luoghi dimenticati e banali. Questo atteggiamento gli fa intenerire la tavolozza, tutta rosa antichi, grigi delicati, celesti morbidi, bruni sommessi, per cui anche le ombre si addolciscono come nelle visioni del ricordo. Questa pittura, che mima la fragilità degli intonaci, si permea così di un’aura di memoria, rivelando, al di là delle scansioni più sperimentalistiche dei suoi momenti di contorno, una natura profondamente elegiaca, che ingentilisce lo hard edge e traspone in poesia gli aspetti del quotidiano più ovvio. Più che l’immagine reale è il ricordo di essa che interessa Genovese, il quale, per bloccarlo, fissarlo, rubarlo e portarselo a casa, si serve della macchina fotografica. Per questo sarebbe un grave errore considerare la sua pittura come iperrealista. Lo sharp focus, che ne sta alla base, viene infatti ammansito da un soggettivismo, o se si preferisce da un lirismo, che è ignoto agli iperrealisti, che sono succubi dell’occhio fotografico e della fredda oggettività del reale. Ed è proprio questo lirismo, sorretto da uno sperimentalismo che ha saputo recuperare, come abbiamo visto, situazioni psicologiche ancestrali, che fa di Genovese uno dei più interessanti tra i giovani pittori di Catania, usciti negli ultimi anni dalla vivace Accademia di Belle Arti della Città.
14 Maggio 1980