L’archetipa simbologia dei segni

di Enrico Crispolti

L’immaginario di Rosario Genovese è implicitamente cosmico. Se le intitolazioni dei suoi oggetti in diversi casi vi alludono anche esplicitamente(Galassia totemica,La mia galassia,Giove, …), in realtà l’impianto delle sue proporzioni plastico-pittoriche vi si riferisce ora soltanto in termini di archetipa simbologia segnica.

E tuttavia l’immaginario di Genovese ha traversato anche un momento, quasi narrativo al confronto, di effettiva esplicitazione cosmica. Esattamente a metà degli anni Ottanta, in una serie di tondi d’ampio formato racchiudenti immagini astronautiche del nostro pianeta, o di Giove, o di Venere. E d’altra parte una remota esperienza narrativa era già nella pittura di Genovese nella seconda metà degli anni Settanta, nei modi di un realismo urbano praticato su segni e insegne stradali estrapolati e inquadrati quali situazioni particolari. L’immagine delle quali risultava decantata fra livelli diversi di trattazione, grafica o pittorica, quasi racconto sviluppato nello spessore del rimbalzo fra fasi diverse di percezione.

Un realismo messo in crisi tuttavia proprio per via di ulteriore più intimo racconto all’inizio degli anni Ottanta, volgendo l’attenzione dall’oggetto situato, appunto di prelievo stradale, a una sorta di flusso energetico che da quei segni e strutture derivava. E in termini di flusso d’energia poco dopo potevano essere lette appunto le sue circolari visioni di pianeti (in una dimensione di ravvicinato cosmico), allusive alla spazialità curva, in una sorta di omaggio einsteiniano. Il richiamo delle quali persino raffinate visioni è necessario alla comprensione del lavoro di Genovese in questi ultimi anni, appunto caratterizzato in una oggettualità rude ed elementarmente artigiana, che la prospettiva d’allusione cosmica, da immaginativamente descritta (nel senso di un’immagine pur corsivamente registrata come una presenza tuttavia rappresentata nella sua densità referenziale), capovolge a cosale, a oggettuale, e dunque tattilmente imminente e ruvida.

Esattamente costituendola in struttura oggettuale-totemica carica di una propria incandescenza fisica, di una propria elementare scabrosità, sulla quale si iscrivono in colore materico segni anulari o spirali dilato quanto evidente riferimento cosmico, anch’essi fisicamente dunque tarati, nella schiettezza materica familiare e marinara d’un calafataggio. Altri oggetti totemici, altrettanto familiarmente materici, hanno invece riferimenti ignei e tellurici, etnei. E altri ancora ad una sorta di territorialità geologica e geografica, annettendo in ellissi scudate quasi araldiche suggestioni insulari.

E così Genovese riesce ora a raggiungere la maggiore suggestività di un simbolismo cosmico e tellurico attraverso la maggiore immediatezza fisica colore-materia e di materie quotidiane come strofinacci o corda di cocco. Traguardando dunque una credibilità tangibile dei segni d’un richiamo cosmico e tellurico, ora non più illustrato ma come interiorizzato in archetipi, secondo una remota familiarità da ancestrale, antropologica, a mitica.

La propria collocazione insulare Genovese la riscopre ora come matrice tellurica e come eco cosmica, riconoscendosi svincolato in certo modo dagli obblighi continentali, e fluttuante così come nel cuore dell’oceano mediterraneo altrettanto liberamente in vincoli soltanto fantastici, come situato in una condizione ombelicale, ove il commercio immaginativo r sostanzialmente sia appunto fra un remoto temporale e un remoto spaziale attraverso tuttavia appunto la concretezza di segni antichi impressi su oggetti nuovi manufatti capaci di suggestioni d’intemporale ritualità basica. Interrogandosi dunque in una prospettiva verticale, archetipa, che sfugge la quotidianità orizzontale della cronaca alla ricerca invece drammatica, di un mitico asse che riequilibri la dimensione dell’esserci in un rapporto di riscontro cosmico. E tuttavia iscritto con la familiarità appunto di antichi segni in una materia che è anche di tutti i giorni, manipolata secondo antichi gesti e spontanee ritualità.

Gennaio 1990

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