Stralci critici

Enrico Crispolti

Mostra personale Centro di Sarro, Roma, 1990

La propria collocazione insulare Ge­novese la riscopre ora come matrice tellu­rica e come eco cosmica, riconoscendosi svincolato in certo modo dagli obblighi continentali, e fluttuante così come nel cuore dell’oceano mediterraneo altrettan­to liberamente in vincoli soltanto fantasti­ci, come situato in una condizione ombe­licale, ove il commercio immaginativo sostanzialmente sia appunto fra un remo­to temporale e un remoto spaziale attra­verso tuttavia appunto la concretezza di segni antichi impressi su oggetti nuovi manufatti capaci di suggestioni d’atemporale ritualità basica. Interrogandosi dunque in una prospettiva verticale, ar­chetipo, che sfugge la quotidianità oriz­zontale della cronaca alla ricerca invece, drammatica, di un mitico asse che riequi­libri la dimensione dell’ esserci in un rap­porto di riscontro cosmico. E tuttavia iscritto con la familiarità appunto di anti­chi segni in una materia che è anche di tutti i giorni, manipolata secondo antichi gesti e spontanee ritualità.

Giorgio Di Genova

Catalogo mostra Florilegio, Firenze, 2013

Genovese predilige rivolgersi al cielo stellato. Dapprima ha cercato di restituire graficamente una galassia a forma di spola (la Galassia di Andromeda?), poi le stelle delle costellazioni, ma caricandole con il suo immaginario di morfemi e figure, anche grottesche suggerite dai miti di riferimento dei loro nomi. Il cielo si scruta con il telescopio. Da qui derivano i tondi in cui l’artista catanese blocca il suo brodo immaginario, così come le tonalità monocrome si adeguano al colore delle stelle, per cui Betelgeuse della costellazione Orione è rossa, mentre Alfa Virginis, ovvero Spica della Vergine, in quanto formata da 2 stelle azzurre, è raffigurata come un vortice di azzurri. La circolarità del resto è tipica di queste tappe di immaginativo scrutamento del firmamento ed infatti ritorna in Stella Nera, che si riferisce ai misteriosi buchi neri, mistero che Genovese immagina come “stracci” cosmici inghiottiti da un vortice.

Ornella Fazzina

Rivista Check-out n° 40, 2011

La particolarità delle sue rappresentazioni nasce da un’indagine sugli astri valutandone ogni loro caratteristica: dalla magnitudine al colore, dal nome di antica appartenenza alla posizione all’interno delle costellazioni, che presuppone conoscenze astrofisiche. Dall’unione dell’aspetto scientifico e fisico con quello mitologico si sviluppa l’interesse anche verso la parola, un testo poetico che nelle ultime opere è diventato una costante. Si intravede, in ogni caso, la necessità di dare un ordine al caos tramite linee di costruzione tracciate idealmente, pur raffigurando configurazioni fantastiche. Ma nell’ultima fase, quella di realizzazione dell’opera, dalla campitura del colore informe si origina una figurazione fantastica suggerita dalle macchie e dai testi poetici. Sembra di assistere a un processo inverso che dall’ordine giunge al caos, nel regno dell’immaginazione creativa. Difatti, proprio nell’atto creativo pittorico Genovese parte da una monocromia macchiata e informe, pur provenendo dall’ordine matematico nella realizzazione del supporto, per transitare il caos pittorico.

Francesco Gallo Mazzeo

Poetico universo, catalogo mostra personale, Centro d’arte contemporanea del Montenegro, Dvorac Petrovica, Podgorica 2016

Cosmologie come innamoramenti, come rivelazioni,racconti che si destano improvvisi, come gli sguardi della volta celeste, facendo danzare la vista in una grande armonia senza fine, che non si fa raccontare, non si fa definire, tanto è il limite senza limite che viene dalle variazioni, dalle fughe, dalle geometrie e da tutto quanto è pesante ma è leggero e fisico, ma è metafisico. Con tutta una serie di duplicità, che sono molteplicità, ma anche unità, perché tutto si tiene in uno spettacolo inevitabile, che fa trattenere il respiro,sospende la stessa poesia, la parola, per poi destarla sotto forma di sogni ad occhi aperti, di teatralità che fa il giro largo dell’orizzonte, da cui tutto emana e di cui anche noi siamo parti, in uno spazio e in un tempo,che fa parte dello spazio e del tempo. Dalle cosmiche apparizioni in cui, divinità, angeli e demoni, hanno dominato fantasie e sogni, allucinazioni e incubi si ergono oggi enigmi appena sfiorati dal pensiero,narrazioni e saperi che superano la portata antropologica,perché sono orientate ad infinito, ad infiniti, dove monologo interiore e teorie scientifiche, accompagnano i sogni alle porte di una grande porta, là dove comincia il viaggio degli anni luce, tanti che si perdono gli alfabeti del possibile, mentre quelli dell’impossibile si avanzano,presentano come sirene tentatrici e bisogna indossare le sembianze di Ulisse, se si vuole resistere agli incanti desideranti del nulla, risolvendole in canto immaginario.(…) Duplicità binaria, si chiama l’attuale dialettica artistica, una scorrevolezza cosmografica che si basa sul ribaltamento negato affermato, come un detto non detto in cui viene confermata una surrealtà data,che ha una sua verità propria, innalzata dalla volta della fantasia contaminante del segno disegno e di successiva coloritura pittura, in un dialogo trasversale, tra il se e l’altro da se, dato da un gioco di algebricità ellittica,in geometricità che rapiscono lo sguardo e mettono in moto la mente figurando gli specchi dell’astrazione,commento aureo alla spazialità immensa, compresa nel giro d’orizzonte, che è un limite, ma anche un mezzo,di cui Rosario Genovese si serve come di una grande macchina che lo conduce, col suo potente motore, nel luogo dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande,che finiscono, nella nostra mente, che è frammento della consapevolezza dell’universo, a partire dal segmento aureo di Archimede che mette in rapporto la parte minore, cioè noi, con la parte maggiore, l’infinito .Ecco, mi sembra proprio questa la parte evocativa di queste ammalianti visibilità, l’avere una passione incorporata, l’avere una ideologia, innamorata e non l’avventura suicida, il salto nel burrone, una speciale sua mappatura personale da realizzare in arte, senza nessuna grammaticalità definitoria, ma come una stimolante opera aperta, che tutti possono compiere,con l’accortezza di non lasciarsi imprigionare da un delirio d’onnipotenza. Tanto resta da dire, tanto da udire,da svelare, un tanto di cui non conosciamo il quanto,perché non solo non si lascia vedere mai, del tutto, ma non si lascia nominare, rimanendo come guida sibillina.(…)Un astrolabio personale, una varia cartografia impalpabile,che si compone lentamente, per come è distillata la genesi di ciascuna opera, che non si lascia sedimentare nel breve,nel tocco e nel gesto, ma ha bisogno d’un corteggiamento lungo trobadorico, senza di cui l’immagine resta implicita,implosa, chiusa, ermetica, al di là dello stesso processo di distribuzione fotonica della luce, in un limbo di triste indifferenza, di depressione sofferente del nulla. È questo il salto di qualità genovesiano che fa del suo paziente tessuto pittorico uno strumento di viva espressione, per non lasciare il vuoto, là dove vuole mettere il pieno, per non lasciare non detto, fantasma, là dove vuole situare la sua fondazione del dire. Un travaglio sull’identico e sul differente che è affidato ad una ritualità personale che ha una sua circolarità, ma anche una sua spiralità, che passa sugli stessi momenti, ma senza lasciarsi intrappolare,perché non si tratta affatto di un eterno ritorno ma di una metafora che viene lenta e da lontano, dagli anni ottanta dell’incontro con le tesi einsteniniane, dell’interesse per sole e galassie con la sua vocazione di forme, colore e materia. Nel tempo gli sono passati per le mani, tante e tante strumentazioni, ma che sono rimaste appunto tali, anche se hanno concretizzato opere su opere, perché per lui il materiale, in quanto tale, è irrilevante e quel che conta è l’effetto mimetico. Dopo avere esplorato simbolicamente la terra, il suo osservatorio si è diretto irrimediabilmente alla configurazione spaziale, passando per diversi momenti di appropriazione, utilizzando i pieni e i vuoti come complementazioni come sollevazioni che dalla mitologia si ergono verso una attualità,in cui lo spazio è più personale, incontro tra pensiero e fare.

Paolo Giansiracusa

Etna E Dintorni, Belpasso (CT), 2001

Nell’assumere nuovi materiali Genovese matura nuove basi ideologiche le quali aiutano a definire la sua poetica. L’artista fa suoi i materiali poveri ma che appartengono alla cultura autoctona e spesso al folklore. Mi riferisco innanzitutto alle strutture lignee che coi loro vari assetti danno forma al materiale che le avvolge: ora la corda di agave sbrogliata, ora gli strofinacci. Un altro materiale impiegato è la corda di cocco. Qui la natura della tessitura – cordonatura è già da sola un motivo espressivo. Ma queste grosse matasse non soltanto ricevono lo stesso trattamento cromatico degli strofinacci, ma, cosa non meno interessante, rivelano, sul piano della struttura lignea, delle trasgressioni sagomali: pronunciamenti, introflessioni, ecc.

Marco Meneguzzo

Rosario Genovese opere 1979-2011, Skira Editore, Milano, 2011

Credo di poter interpretare quel tuo momen­to anche linguisticamente, e non solo psicologicamen­te. C’è una fotografia iniziale, poi un disegno, poi la pittura, poi la fotografia di quella pittura, il ribaltamen­to della stessa e la sua riproposizione fotografica sul­la tela emulsionata: è un percorso di allontanamento e di riavvicinamento alla realtà, con un acme che si ma­nifesta nella visibilità dell’opera, ma con tutto un aspet­to processuale di presa di coscienza degli strumenti e dei linguaggi dell’arte che sta dietro il visibile della te­la, ma che è comunque presente nella processualità del lavoro, componente fondamentale dell’opera. È que­sto che intendi con altro da sé?

Ivano Mistretta

Rosario Genovese mondi dentro, Ibook– Scrimm Edizioni, Catania, 2013

Le opere di Genovese sedimentano immagini e immaginari, uno spazio frequentato da figure che però sembrano solo attraversarlo, come se la tela fosse l’istantanea di un cielo sottratto temporaneamente alla rotazione della volta celeste. Opere che si fanno leggere ognuna per sé, ma che meglio si rivelano nel loro farsi sistema, come parti di una cosmografia immaginaria che diventa visione man mano che ne ricomponiamo mentalmente l’insieme. Una visione che non si compie linearmente e non si chiude in se stessa perché è dialogo tra le figure vicine ma anche risonanza tra quelle lontane e ricorrenza tra le opere, percorso rizomatico che procede per salti, echi e avviluppamenti.

Demetrio Paparoni

Rosario Genovese opere 1979-2011, Skira Editore, Milano, 2011

Genovese non ritiene che l’immagine esprima una verità, né che il soggetto dell’opera sia nella rappre­sentazione fantastica dei corpi celesti. Lavorando sulla superficie del dipinto con una sorta di automatismo – che escludendo la citazione finisce per reinventare le immagini del mito -, egli si propone di far convivere il rigore dell’ apparato scientifico e un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale, basato sull’associazione delle suggestioni letterarie (i racconti che si sono costruiti nel tempo attorno ai singoli astri, ma anche le informazioni fornite dalla scienza, anch’esse assurte a una dimensione letteraria). Per comprendere a cosa miri questa pratica può essere di aiuto David Hume, secondo il quale l’idea che ci facciamo di un oggetto e l’oggetto in quanto tale sono la medesima cosa. In altre parole, per Genovese dare immagine agli astri significa avere coscienza del Cosmo fino a sentirsi parte di esso. E poiché ogni astro porta con sé la memoria delle mitologie che incarna, ridefinirne l’im­magine (1a superficie del dipinto) attraverso un processo di conoscenza irrazionale significa partecipare all’immortalità del mito, che si rigenera per mano degli artisti, dei poeti, dei letterati e di chiunque creda che le acquisizioni scientifiche smentiscono le credenze e le superstizioni, ma non per que­sto ne alterano le capacità evocative.

Carmelo Strano

Catalogo mostra personale Art Club, Catania, 1990

Nel periodo dell’esperienza eminentemente pittorica l’autore parlava infatti di La mia Luna, Il mio Giove. Ora questa soggettivizzazione si allenta. In quest’ultima produzione ci sono due elementi che la rendono espressione della dimensione spirituale della nostra epoca che in altra occasione ho detto di “Nuova classicità”. Il primo elemento è un modo di comunicare che contempera, appunto, ragioni obiettive e ragioni soggettive. Il secondo riguarda la struttura semiologica di questo comunicare costituita dall’ellisse. Quest’ultima è infatti una figura geometrica che assicura una comunicazione definibile. Diversamente dall’iperbole (che esprime l’apertura all’infinito) e diversamente dal cerchio (che si collega a una circolazione chiusa e monocentrica) l’ellisse, in forza dei suoi due fuochi e della conseguente sua eccentricità, mantiene il principio, ineludibile, dell’ambiguità nell’espressività, e nello stesso tempo delimita l’ambito di questa circolazione; sicché ci si può sempre riferire alla “reale” volontà del “mittente”.

Emilia Valenza

Un ponte fra terra e cielo, quotidiano Giornale di Sicilia, 1991

La pennellata che contraddistingueva i suoi lavori pittorici si trasforma adesso per una straordinaria metamorfosi in corda; le sue agili strutture di legno spesso recuperate dagli oggetti della tradizione, si lasciano avvolgere dalla corda d’agave, che ricopre in tutto o in parte l’ossatura dell’opera. Da puro artigiano Genovese di ritrasforma in artista che interviene con il colore sul tessuto compatto della scultura. Tre i temi fondamentali scelti a soggetto: galassie e pianeti, vulcani e isole. Le isole incarnano una simbologia che è tutta femminile, rappresentano nella loro dimensione circolare, il principio terra-madre, nel cui ventre cova una sorgenti di vita; i vulcani, simboli del potere intrinseco della terra e fonti un una incredibile forza, sono costruiti come metafore falliche, come monumenti totemici che racchiudono l’esplosivo e d incandescente magma.

Marisa Vescovo

Catalogo mostra personale Art Club, Catania,1990

Genovese, come già i Surrealisti, cerca una esplorazione dell’inconscio, cerca il magico, il poetico, ossia l’inatteso, l’inconfondibile, ciò che non si lascia sostituire né scambiare. Infatti l’artista cerca, con il suo lavoro, di allontanarsi dall’astratto e anonimo ingranaggio che coordina, sintonizza, macina, la vita degli uomini. In questo vivere di oggi, che si risolve poi nell’essere consumati e consumatori, in un’ebollizione di luoghi comuni, di slogan, egli cerca di cogliere di sorpresa le immagini e le cose, per immobilizzarle nel loro peso, di cui potrebbero anche sembrare prive. È quindi come alludere ad un rimescolamento delle carte in cui la necessità è messa da parte e il caso e la possibilità prendono il comando.

Vittorio Ugo Vicari

Come Melancholia che addenda alla sua rubedo, rivista New l’Ink, maggio-agosto 2016

Insomma: io credo fermamente che gli uomini scrutatori dell’universo notturno siano di gran lunga migliori di tutti gli altri, forse è per questo che mi sono trovato in empatia immediata con Saro Genovese. Tu entri nel suo studio di via Plebiscito in Catania e come in un diorama settecentesco ti si rivela un microcosmo siderale affollato e convulso, un frammento di via lattea, un pezzo d’universo dalle stelle fisse. E mentre ruoti la testa di qua e di là districandoti tra quella materia ignea e magmatica, un pezzetto d’astro ti s’è di già impigliato addosso, non ne potrai più fare a meno.

Come uscire da questa dimensione poetica e ingombrante? Lo stesso autore ti guida, sciorina calcoli, muove sestanti, stabilisce su carta rapporti aurei tra le magnitudini stellari e le dimensioni che dovrà avere fattivamente la sua opera; allora capisci meglio che sei nel bel mezzo di un procedimento matematico, ché non è solo l’anima a segnare la strada ma sono processioni equinoziali, piani eclittici, calcoli numerici e numerologie (…)

Perché gli astri di Genovese, a ben vedere, sono popolatissimi di esseri “superi”, psichici e stralunati. Li diresti come dei “grilli”, drôlerie medievali che lassù abitavano da tempo immemore ma nessuno li vedeva; l’artista si limita a portarli alla luce nella filigrana delle velature pittoriche con un caratteristico tratto incisorio. La critica ha parlato di una possibile angelologia; chissà, forse è vero, o forse soltanto quei mirabiliasi trovano ad essere evocati loro malgrado, come Dei oziosi di un’era lontana ed eonica. Le sue stelle non sono fatte per uno sguardo fugace, più ci torni a scrutare e più ci trovi (…)

Si esce così: rinfrancati, dallo studiolo rinascimentale di via Plebiscito in Catania, con l’illusione che, fuor dal caos popolaresco e vernacolare all’intorno, si sia assistito ad un piccolo miracolo della poesia contemporanea; e questo travalica ogni disillusione mondana, come Melancholia che attenda alla sua rubedo.

Giuseppe Frazzetto

Alha/Beta. Corrispondenze, catalogo mostra personale 28 marzo 2014, Edizioni Galleria la Vite,  Catania.

Da qualche anno Genovese dipinge “stelle parlanti”: dipinti-oggetti-installazioni in cui un’apparenza di corpi celesti viene ripresa mimeticamente, destrutturata, fatta divenire matrice d’una germinazione di segni allusivi, in una singolare fantasticheria ibrida di scientismo e sogno ad occhi aperti. ‘Pittoscultura’, in quanto il supporto dell’immagine si rifiuta d’essere una superficie piana, strutturandosi in semisfera – forma ostica per un pittore che, come un cartografo, dovrà tener conto delle deformazioni prodotte dal rapporto fra superficie piana e curva, in una reinvenzione non euclidea delle coordinate stesse del tracciare segni e colori, in approssimazioni ed equivalenze.

Ne ho discusso già in altre occasioni, notando come questi manufatti non siano solo una sorta di sogno astrale ad occhi aperti, ma tentino la via inusuale di qualcosa definibile come “impresa sciamanica”. Dall’impresa riprendono il rapporto fra un’immagine e un testo (sono accompagnati da componimenti poetici sequenziati in frasi ieratiche, solenni); dall’approccio sciamanico recuperano lo spingersi verso un’impossibile visione a distanza, o sguardo sull’invisibile.

In una sua nota, Genovese precisa di osservare (dal 2010) “i singoli corpi celesti esplorandoli uno a uno” e riproponendoli poi “in opere che mantengono il rapporto metrico in scala nonché la colorazione originaria”. C’è un’intenzionale ‘referenzialità’, di conseguenza, sebbene spinta all’estremo – una stella in effetti non può essere ‘vista’. Ma aggiunge: “esaminando le origini etimologiche del nome della stella [si] compie un viaggio pittorico nel fantastico, tra cosmologia e mitologia”. E qui quella paradossale referenzialità diventa decostruzione dello sguardo, brulichio inconscio di “piccole percezioni”, di monadi inconsce e della bi-logica per profondo. Tuttavia, ancora: più di recente la meditazione sulle “binarie a contatto […] conduce a riappropriarsi dell’opera doppia, affiancando alla prima tela dipinta a guazzo una sua copia fotografica su tela. Accostando poi i due supporti si interviene in alternanza su entrambi, con disegni a matita e pittura a velo, per dare vita a una sola opera”.

Referenzialità e decostruzione non sono un modo di scordare il medium, o di negarlo. (Non va dimenticato che Genovese ha perfino scritto un libro dedicato alla psicologia della progettualità artistica). Referenzialità, decostruzione, duplicazione e modifica sono il medium usato.

Andrea Guastella

Rosario Genovese Cosmologie, catalogo mostra personale 13 Maggio 2017 Vittoria (Rg), Aurea Phoenix edizioni, Ragusa

Benché Rosario abbia un bisogno fortissimo di mettere ordine nelle proprie convinzioni, a muoverlo è in primo luogo la forza dell’immaginazione. Cos’altro, se non una mente eccitata, avrebbe potuto concepire le figure mutanti che danzano sul volto delle stelle? Non a caso, gli studi preparatori ci confermano come la vera singolarità di queste prove sia una progettazione continua che, dagli schizzi alle indagini folkloriche sulle leggende stellari, è parte integrante e non semplice premessa dell’atto creativo. Più che un prodotto finito, l’artista elabora un percorso rituale: “l’opera”, spiega, “viene sottoposta ad una prima fase di registrazione dell’immagine che parte da una fascinazione iniziale. La stessa viene ripetuta sul secondo supporto gemello con caratteristiche similari, non uguali, ottenendo copia della prima. Questa ci porta al doppio binario visivo, che significa porsi davanti alla stessa opera doppiata quindi iniziare a intervenire alternando l’impatto emotivo tradotto in espressione pratica sui due supporti. L’intervento viene eseguito interagendo contestualmente in alternanza durante lo sviluppo dell’opera, creando un flusso energetico continuo di andata e ritorno sui due supporti. Ma l’aspetto più interessante nasce quando, iniziando a lavorare sul primo, nello stesso momento emozionale, si trasferisce la stessa immagine sul supporto gemellato per coglierne il flusso emotivo. Tornando nuovamente al primo supporto iniziale si rivive la nuova reinterpretazione del gesto emozionale. L’opera, così facendo, si sviluppa lavorando in alternanza continua fino al suo completamento. Infine questa verrà fruita nella sua totalità binaria”. I termini di questo processo sono, prevedibilmente, mutevolezza e divenire: Narciso non riconosce che in parte la sua immagine riflessa. Ma, a pensarci bene, qualora la riconoscesse del tutto, come potrebbe innamorarsene? Ora, è anche accompagnando la liturgia della pittura con ipnotici testi letterari che Rosario riesce ad evocare eventi complessi e in pieno svolgimento come le relazioni attrattive tra due stelle binarie.

Testi Critici